Legami di Seta - Forum Italiano BDSM & Fetish

Prima Classe, maledom - cerebralità - sottomissione - bondage - frusta - sadomaso - sesso

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view post Posted on 27/3/2013, 11:19     +1   +1   -1
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T.P.E.
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Racconto non autografo, trovato sul web. Dal sito ParoleErotiche, autore anonimo
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Piegata, impastata, la tua firma apposta sui fatti.
Resto ferma davanti al monitor e rileggo la frase. Il vuoto è annunciato e promesso. Mi alzo da un letto di pieghe e di pianto. Le lenzuola macchiate d’attesa, sconfitta, perduta. Non sento più il senso della materia, raccolgo le cose intorno a me e ne riempio di poco una piccola borsa.
Non oso guardarmi allo specchio, tremo e sono ghiacciata da brividi intensi. Perso il contatto col mondo, la mente ad occhi sbarrati di estrema attenzione. Gesti meccanici, i meno usuali possibile per prepararmi. La borsa, il telefono, lo smalto che non posso ricomporre; le corde che mi hai ordinato di portare stringono polsi e caviglie e tirano a te. E’ tardi, devo sbrigarmi: il senso del tempo finito, precario, infinito, perduto; del viaggio che inizia da lì, della frase sul monitor. Riscrivo il codice della prenotazione, infilo la gonna. Cosa serve io abbia? Nulla, nulla mi può aiutare. Le calze, gli stivali, la pelle sulla pelle; nessuna cosa si adagia sul corpo dandomi certezze, Percorsa da fili di alta tensione esco in strada.
Cosa faccio ora? Tutto chiaro, tutto scuro, insolito, grave. La mia macchina non esiste più, devo inventarmi le ali, la velocità, il modo , la fretta. I passi scavalcano i passi, salgo sull’autobus.
Maledetta città, apri le tue gambe rapprese nella sera e nel buio, lasciami scivolare dove voglio, o sarò costretta a tagliare brandelli di carne per il mio viaggio attraverso di te, attraverso di me.
Seduta in un mezzo quasi vuoto, scorre fuori un mondo che non conosco, disturba la a mia corsa, non reca sollievo. Io stessa sto guidando, io sto camminando, io e le mie borse strette in mani ghiacciate: Io e la mia paura, io e le pieghe di quella frase , pesante, gelata, imponente.
Dove scendo per la stazione? Mi costa fatica usare la voce, non riconosco la mia città, mi serve solo quel poco per fenderla ora. Le mie lenti scure a rabbuiare la notte, Seduta composta e paralizzata dal tempo, dal viaggio, da aghi sottili che sento salire dove il mondo ha contatto con me. Il sedile è di fuoco, le gambe di gelo, le mani sudate a serrare maniglie di viaggio.
Scendo, passi veloci, risalgo, un altro autobus. Nessun attimo sprecato, non può, non posso.
La stazione, i piedi sembrano avvinghiati a terra, ad ogni sforzo di sollevarli e procedere. Il biglietto, prima classe, devo ritirarlo. Le dita incerte e piene di fuoco a fondere i tasti, la testa che non c’è. Più tentativi e lacrime di rabbia e di furia.
Continuo a tremare dal letto, dal monitor, la scarica elettrica ha guizzi di fiamme nelle carni e pensieri.
Umiliata, piegata, avvinghiata alla fretta; lo stomaco contorto in spasmi e paura; i piedi pesanti catene di terrore: il corpo in forma di fretta.
Il treno, la prima classe,. il posto della troia che arriva. Si vede tutto questo all’esterno? Si.
Nessuno sa che sono qui, nessuno sa dove io sto andando. Questa è schiuma di un’onda violenta; mi toglie il fiato, sbatte più in là, dove sono spezzata e battuta, nel trionfo di te.
Non ti conosco, non so chi sei, ho raggiunto gli ordini tuoi, percorsa di freddo e di fame e sangue impazzito.
Il treno, Il mio posto da troia pagato da te. Io che vivo da sempre nel completo dominio di cose e persone intorno a me.
La prima classe, rosso e nero i colori di fondo, le luci intorno e nei riflessi. Non riesco a respirare, seguire il tempo di viaggio. Io trascino il treno, più avanti e più veloce. Tra i denti mordo la corda del traino da soma, verso i tuoi occhi che non so e le fredde parole scritte per me.
Il treno è spietato, fa scorrere a fianco e sotto specchi di vita, di notte di spazio. Mantengo un ritmo accelerato del cuore, un circolo vizioso di pensieri, un centro che svolge la sua linea come frusta schioccante e la riavvolge mai sazio.
Mancano ore all’incontro con te e ti riconoscerò perché non ti conosco fra mille, ma sentirai l’odore della paura animale che porto con me e mi troverai mentre fermo e magnifico non aspetti di me.
Segnali di fumo lanciati a riprese, nella piccola luce implorante del telefonino dicono: più ti cerco, più mi perdo e tu trovi te; dicono: dove sei dove sei per favore?; dicono di ore avvolta nel muoversi del mondo di viaggio di corpi e anime fuori di me, di ore sbranata dalle ore di silenzio della tua risposta. Nessuna, non una linea di binari o di tralicci scorre parallela accompagnandomi, ma si conficcano e attraversano la mia immobilità, nel proseguire la loro corsa serena. Ritardo, abbiamo persino ritardo, e scorro le ultime immagini di una notte te ancora non notte, camminando su e giù. Adombro la certezza che non ci sarai, mentre ricevo il tuo… ti aspetto, lo sai. E so che nella tua attesa hai riposato, corso veloce sulla tua moto d’argento e porpora e blu, chiarendo, schiarendo, lampeggiando nuvole per me.
L’arrivo, scendo gli scalini con passi di gesso e di preghiera; gli occhi sfiniti e brillanti di pioggia, una presunzione sconfitta, una umiltà protesa, una invocazione infinita, una paura folle.
Sei lì, mi accogli, senza parole, nel silenzio di occhi mai visti. Sei grande, maestoso, padrone di quegli attimi sospesi per te. Di fronte a me, al viaggio in prima classe, alla troia che viene da te, alla sua perduta speranza di esserci mai.
Sei fermo, non accarezzi nessuna ferita tu veda, non parli. Vestito di scuro e di dominio, mi porti con te.
Procurati corde….
Mi aveva assalita l’ansia del compito, dell’ordine, del suo senso, della visione del bianco e del nero, del loro incontro, legato, stretto, convulso, tremante, bramoso, affamato, sopraffatto.
In strada a cercare la corda, un nodo alla gola soffocante, scorsoio.
Non porto mai nulla che cinga o stringa il collo, mi è insopportabile e ora tu lo annodi e chiudi, lo pieghi in basso dove potermi trascinare in ginocchio, su zampe che vorrebbero sfoderare pensieri artigliosi.
Corde...entrata nel negozio non vedevo molta scelta; toccavo ascoltavo il senso del tatto, finché potevo sentirlo da fuori. Mi sbagliavo, mi conducevano a vederne altri tipi; pensieri, di nessun pensiero quasi intenta, solo bisogno di soddisfarti appieno. Troppo spesse, tornavo a guardare e toccare le prime…si.
Ne voglio dieci metri. Vedevo misurare e tagliare, mi soffermavo su quanta, quanta corda. No quindici, dico, prima che il punto sia reciso. Non smettevo di pensare a quanta, quanta ne vuoi?
Con la corda ben riposta, mi attardavo a comperare altre cose di uso normale, ma non le mescolavo nei sacchetti che tenevo in mano, Sentivo il peso solo di uno, quello che conteneva quella lunga lunga linea bianca. Pensavo ancora che forse ne avrei dovuto prendere altra, altrettanta; quanta, quanta corda ti occorre per tenere ferma la mia schiava, cagna, presuntuosissima indole?
Mi porti in silenzio, viaggiando fra ombre di notte, per raggiungere quella camera, quel motel, quell’attesa all’ingresso, quella stanza da troia che ha viaggiato in prima classe.
Ti porgo le corde, quando la porta è ormai chiusa, quando il mondo tra cui sono scivolata, non c’è più. Sono costretta al silenzio dalla mia paura, dall’attesa.
La mia troia ha fatto buon viaggio?…mi chiedi, incurante delle mie emozioni, mentre sento che le accarezzi e consumi. No.. si…no… come faccio a rispondere, a pensare mentre vedo svolgere il legame bianco. Ti occorre qualcosa?… chiedi, mentre vedo per la prima volta i tuoi occhi nei quali bagliori di corde che scorrono riflettono la risposta. Si… rispondi tu, per me. Sdraiati. Sento questo ordine come l’ultima voce di suoni noti e mai uditi, e la prima di un viaggio nel buio. Non è sufficiente… mi dici, e mi sento stretta nel disagio della mia incapacità. Ne tagli un primo pezzo, con secco udibile reciso rumore. Questa per i tuoi occhi… e giri tre volte attorno al viso il bianco strisciante e e graffiante su palpebre, ciglia, capelli arruffati. Stringi forte e il nero è il primo regalo e privazione di senso. Risento il rumore del taglio, ora posso solo sentire, con orecchie e pelle e narici spalancate: il mio odore, la mia paura, gridano forte. Questa per i tuoi polsi… e racchiudi le ossa tremanti in un solo giro annodato che fermi saldamente alle gambe del letto. L’orologio fa male, spinge sul dorso della mano, si rapprende il tempo in quell’istante, mentre sento persino il ticchettio di un meccanismo non meccanico. Oppure è il mio cuore impazzito.
Questa per le tue caviglie… e cingi sui veli neri di calze e pelle degli stivali, il cerchio sottile che sconfina nel piede, per fermare le mie gambe ai piedi del letto. Fa tutto male, e io istintivamente tiro, tiro per capire che non posso tirare, tiro per capire che quella è immobilità. Le gambe sono molto allargate, sale la gonna più di quel che dovrebbe, sento il suo bordo scoprire il ricamo ultimo delle calze. Posso solo ascoltare, da dentro da fuori, i movimenti che percepisco, nello spazio intorno a me. Sollevi la maglia, abbassi il reggiseno, il bianco esplode piccolo e impaurito fuori dal nero in un gesto di uso e di osceno. Non sento nulla ora, ed è agghiacciante. Esposta ad una visione di cui non ho occhi, di cui sono oggetto, di cui non posso che esserci, tremo, visibilmente. Hai freddo?… e prima che io possa riuscire a rispondere continui…zitta, stai zitta, non ti ho chiuso la bocca solo perché è troppo bella, la userò. E’ quasi rassicurante, quasi. La mia bocca sa essere un luogo di grande piacere, ma questo piccolo pensiero si strappa via veloce, da se stesso negato. Ti ascolto fumare tranquillo, l’odore che conosco mi sfiora da molto vicino, mi ferisce le voglie, non ho più in mano nulla. Poi ti sento, a cavallo del mio collo, quasi a volerlo di più soffocare. Sobbalzo di colpo ma tu premi su di me, mi spingi in bocca la tua penetrazione, usi un buco che non ha modo di essere che buco caldo e avvolgente quanto più può. Le mie mani si contorcono in gesti impossibili, non posso toccare. La testa è schiacciata sotto al peso e alla costrizione di riempimento duro e violento. Potrei soffocare, e mentre mi sfiora il pensiero, la gola si infuria per il varco oltrepassato. Le vie aeree si chiudono , e nessun respiro è possibile, solo la furia dell”invasione. Ti scosti. Sono troppo buono con te… mi dici, mentre cerco di riavere aria da respirare. Sei una schiava molto bella, sei una troia di prima classe, e queste parole sembrano più vere che mai, mentre metto in dubbio la mia bellezza, da dentro, dal buio, dalla impossibilità di saperlo ora. Il sapere è solo tuo, come lo è il potere di questo momento.
Ti muovi nella stanza, me lo fai sentire con gusto. Ti sento sciogliere e riannodare il polso al polso e la caviglia alla caviglia, e sono ora fermata su un fianco, tirata in tutta la lunghezza, esposta in modo diverso. Ora ascolto un suono che non conosco, ma intuisco: è lo sfilare di uno spessore schioccante, che raddoppi e ti avvolgi intorno alla mano. Così immagino, così tremo nel pensare.Ti avvicini, ti accosti, appoggi questo nuovo contatto sulla pelle bianca che si è scoperta sopra i pizzi delle calze, sulle pieghe che si intravedono sotto la gonna. Spingi con calma e sollevi quel poco di tessuto che ancora copre il mio culo, e lo esponi completamente. Non riesco a star ferma, sono percorsa da scariche elettriche che mi costringono a salti di senso e di timore. E anche da un inarcare istintivo della schiena, per porgermi meglio. Mi vergogno di quella offerta impudica, mi vergogno di ogni istante.
Se potessi stringere gli occhi di più di quello che le corde stringono, lo farei, li vorrei serrati come a negare tutto, ad aspettare senza fiato, a chiedere quello che temo. E’ sussurrante quella cinghia che compone circoli di insinuazioni, e quasi calma quando ancora la sento così, per poi costringermi a ritrarre la pelle e le pieghe e porgere anche meglio le forme, quando si nega, per creare l’attesa.
I colpi, secche sferzate per l’anima, sorde battute su tasti di pianoforte per comporre suoni di sicuro impatto, furenti bruciori impazziti, strisce di piacere.
Il tuo culo è fatto per questo… e nel dirlo aumenti il ritmo, mentre mi torturi piano i capezzoli trovati con forza tra le pieghe della posizione voluta. Non so se scegliere le due diverse sensazioni, non so se sono distinte o somma, o contrasto. Ma sembra che tu sappia che ogni cosa che stai facendo mi rende pazzamente schiava di questo momento, di te. Tu sai, tu vuoi.
Vorrei urlare, ma non lo faccio, vorrei dire basta, ma non lo faccio. Forse lo aspetti, forse lo cerchi, forse non ti importa. Forse lo dirò, forse…
Basta, per favore… non mi senti, non serve. Zitta. Veloce risciogli polsi e caviglie per riannodarli ai lati, come prima. Non ho deciso io il momento, non posso decidere nulla, ogni ritmo, volontà e trionfo sono tuoi.. Ritorno aperta ed oscena, di più, di più.
Sollevi senza nessuna attenzione la gonna davanti, se ancora servisse; non ho più vestiti addosso, ma lembi di nero che soddisfano il tuo sento estetico dell’uso. Sposti le mutandine di lato, in un gesto senza garbo, senza cura; ancora sobbalzo, in un impaurito, incredulo moto d’istinto. Infili le mani di forza, fai male e non posso reagire. Infili una valutazione di ciò che pensi, ti compiaci. Mi fai sentire…. Una cagna in calore, mi dici, mentre lo penso. Piango, calde e copiose lacrime scendono dove possono tra le corde strette sugli occhi; quelle riescono a sottrarsi ai tre giri di corda che ferisce; ti fermi un solo attimo a guardarle soddisfatto, mentre diventano singhiozzi convulsi. Le mani frugano, allargano, indagano, e poi si aggiungono dita alle dita. Mi prendi e mi sollevi, come se dovessi far di me carne da appendere ad un gancio da macello. Zitta, Zitta. Ti sento più addosso, ti sento di colpo dentro di me. Non lo voglio, vorrei essere altrove, dove sono una persona e non questo. Vorrei, voglio essere proprio qui, dove sono… sono… proprio in questo. La tua violenza mi scuote, si infuria, si svuota. Mi lasci tremante, vorrei ora raccogliermi su me stessa e stare in un buio profondo, dove sentire chi sono. Ma non posso ancora, ti sento salire più su. Apri la bocca. Poche cose hai detto, e ora so perché ti serve la mia bocca. Non lasciarne scendere nulla. E io mi impegno a ingoiare quella bevanda di te che offende la gola e lo stomaco e la mia mente, senza perderne una goccia, ciò che scappa tra gli urli dell’anima, sono ancora lacrime, meno salate, meno calde di quello che mi scorre dentro.
Ti sollevi, sento richiudersi piccoli movimenti, il fruscio della cinghia che torna al suo sorreggere. Mi sciogli i polsi e le caviglie, non riesco nemmeno a soddisfare il bisogno di stringerli fra le mie mani per addolcirli un po’, non riesco a fare nulla. Non mi sciogli gli occhi, non lo fai. Ti sento muovere e allontanarti, la porta che riapre un mondo che ancora non posso valicare, che ho valicato di molto. Sento chiudere la porta. Non ci sei più.
Mi rannicchio, non oso riavere i miei occhi, non ancora.
La tua presenza , così dentro di me, così intorno a me, così sopra me, così grande, così negata.
La mia presenza, così offesa, così usata, così disprezzata, così riavuta.
Riapro gli occhi e mi preparo al ritorno, in prima classe.
 
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