Diario di bordo: giorno X
Deve essere giunto il mattino, annunciato dai pallidi raggi che bucano le nuvole, le infinite maglie del tendame, le gocce tra le palpebre, fin dentro il cervello, dove il whisky della sera prima, come attivato dagli atomi luminosi, intraprende una macabra danza con ogni nervo del mio corpo, al tribale pulsare arterioso, trascinandomi in un inquieto dormiveglia, la testa mi duole, e il suo interno, ancora quel sogno doloroso e la macabra danza e i fuochi del falò e la maschera... Ormai è mattino, tutto è passato, come un uragano che porta via ogni cosa, che lascia una steppa arida e deserta, ed io solo a muovere i passi nella fanghiglia e sprofondare fino le ginocchia, tra pozze di incubi irreali che poco a poco sprofondano nei ricordi, e i ricordi a cui mi aggrappo... Una notte eterna. Oh, dove è quella fanciulla e dove le giornate colorate, dove la mia ciurma, dove la mia nave, dove sono io adesso, se non nell'abisso di tutti i mari, nella grigia oscurità ad inseguire come un pazzo luccichii fievoli e fugaci di stelle inesistenti, di scosse elettriche nella mia testa, fa terribilmente freddo, freddo, vorrei sprofondare nel sonno, per dimenticare di ogni cosa e di ogni dove, vorrei sprofondare nel sonno, rannicchiato nell'angolo della mia cabina, con una spessa coltre di lana a nascondere il terrore, l'angoscia, l'ansia, la follia, la colpa ed ogni cielo ed ogni mare e i luccichii, ad occhi chiusi, i luccichii. Rimbombi continui nella mia testa, picchiano le pareti del cranio, è un rumore sordo, inconfondibile, è il batacchio della porta, qualcuno là fuori, ora posso sentirne la voce che filtra dalle fessure tra i sesti e gli stipiti e il pavimento, attutita dal legname, conosco quella voce roca per i sigari e forse per i troppi funerali, e la mia mente corre al luogo dove approderemo, oggi e molto tempo or sono, nei miei incubi, a quel vulcano, cavità a picco nel mare incandescente, grida di svegliarmi, che siamo ormai giunti al nostro destino, noi, io, che paio anch'io un vulcano, rannicchiato come sono alla parete della stanza, scosso dalle sue grida, e da quelle che non escono da me. E' quasi il tramonto, la nebbia solfurea avvolge la scialuppa e sette uomini indistinguibili, ricordi di ciò che ero, non ci vorrei tornare al vulcano, a quei fuochi, a quella notte, ma ogni mio pensiero mi porta là, tra gli zampilli incandescenti, tutti intorno, illuminano sette sagome, dagli occhi scavati che si può vederne l'anima, non so se qualcuno tornerà o se rimarrà invischiato nella cenere e lentamente a mescolarsi con essa, come fosse il prezzo da pagare, per mettere piede sul vulcano. Anche il cappellano di bordo lo sa, per questo vuole tornare sull'isola, per celebrare il funerale, o per tentare in qualche modo di impedirlo, non saprei, io credo voglia partecipare alla cerimonia pagana, già la cerimonia, odori, ombre, musiche, danze, una sinistra energia la celebra, avvolge ogni cosa, ed entra nelle ossa e in ogni nervo e ivi si nutre e cresce, finché ci si dimentica di possederla, una droga, una droga dell'inconscio. Il mare tinto di un giallo pallido, l'isola è vicina, già se ne avverte l'odore acre, quasi fosse un gigantesco cadavere annunziante il termine di ogni viaggio, mi volto alla Desideria avvolta dallo zolfo che pare un galeone fantasma, vorrei tornare indietro, tornare ad essere un fantasma, che non affrontare la morte, il vulcano, e chissà cos'altro dentro la mia testa, un sibilo delirante, terrifico, i nervi si contraggono, a straziare il mio cervello, una scia atroce, una scia di sabbia e zolfo, accoglie la scialuppa ed il suo equipaggio, su di un paesaggio lunare tinto di giallo, avvolto di una inconsistente polvere, che assimila ogni cosa, come un segnale, come ogni cosa, ora, sia posseduta del vulcano. Il cappellano è il primo a scendere, quasi si dovesse andare all'inferno, si inginocchia, e lancia qualche assurda benedizione, sa bene che è tutto inutile, e un sorriso strappa il mio volto, e il suo... Ha qualche anno più di me, ma gliene si potrebbero dare cento, o forse più, pare già un cadavere putrescente, la salsedine pare averlo ormai scuoiato e ancora si ostina a prendere il mare, è convinto che debba morire lì, nel mare, in qualche assurdo oceano della sua mente, ha avuto una visione, e a suo dire, ne è come perseguitato, e come posso non credergli, anch'io ho avuto la medesima visione. Sono passati ventuno anni, dalla mia cabina osservavo la nebbia della mattinata di quel fine gennaio, e a non più di cinquanta metri, una figura muoversi nella nebbia, sulla banchina del porto, o in mezzo al mare, o chissà dove, era troppo lontana, e la nebbia troppo fitta, qualcuno era là fuori, a prendersi gioco della mia vista, non di me, potevo ascoltarla, sentirla, immaginarla, era solo una visione, una terrifica premonizione. Nel mentre qualcuno bussava alla porta, ci siamo forse è lei, capitano, capitano, c'è qualcuno per Dio? Oh sì, certo che ci sono, si faccia avanti dunque... Versai un poco di whisky nel bicchiere, quasi fosse l'ultimo desiderio di un condannato, guardai a traverso il vetro la porta deforme aprirsi piano, una sagoma deforme, come avessi di già bevuto, una tonaca nera, che vuole un vecchio prete a bordo della mia nave? Capitano, pensavo che un prete potrebbe esservi utile, utile e per cosa? Che fate alla finestra, con la testa chissà dove, ad osservare il nulla, sono ore che ve ne state a scrutare la nebbia, vi ho visto, sapete, sono ore che non vi muovete da lì. Che diamine sapete di cosa osservo? Ho fatto un sogno questa notte, un sogno premonitore, un incubo, ho visto quello che state osservando, ho visto il temporale e il fumo del vulcano e i fuochi e le musiche e le danze, ho visto la cerimonia, e una figura vestita di nero, con una maschera, giù per la scala, nel buio... Mi avete visto morire nel mare, e non desidero altro che tornare nel mare per osservare dove finisce l'incubo e dove inizia la realtà. Pazzo, non c'è nessuna isola, nessuna figura, la nebbia è nel vostro cervello, nessun sogno che finisce, nessuna realtà che inizia, i sensi mutano l'essere, che sia il vostro o il mio o quello di qualunque altro folle, non importa cosa avete visto, così come non importa ciò che ho visto io, non è altro che un'illusione, una stupida terribile illusione, e anche se fosse reale, e Dio solo sa quanto sia tutto così inverosimile, perché affrontare le onde e le tempeste e tutte le paure di questo mondo e fors'anche quelle dell'altro, perché immergersi nella più inquieta delle illusioni, per osservare fin dove si spinge l'umana follia, e il fiore, l'avete forse visto il fiore? Sapete dunque di che vado farneticando, avete assaggiato il fiore del buio, tacete pazzo, vi ho visto, avete assaggiato il fiore del buio, e adesso ve ne state tutto il tempo alla finestra a delirare con le vostre visioni, non sapete più cosa è reale o immaginario, dovete tornare su quella maledetta isola, non desiderate altro, e sapete che io devo venire con voi. Siete un povero pazzo prete, proprio come me, come sapete dell'isola, della nebbia, della figura, e di tutto il resto, come sapete del fiore, l'avete assaggiato, da quando avete le visioni, ah tacete, non me lo dite, lo immagino da me, e poi avremo tempo per discuterne, ho già fatto costruire la cappella, potete andare a darvi un'occhiata se volete, e non dimenticate di benedire la nave, si salpa domani alla mezzanotte cappellano. Un sorso di whisky?
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