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MEMORIE DI UNA CAGNA

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-triskell-
view post Posted on 18/1/2013, 11:03 by: -triskell-     +1   -1
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T.P.E.
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Memorie di una cagna - 10

Erano già due ore che lo aspettavo, seduta sulla poltrona del salotto, quando Lui scese a cercarmi ancora mezzo nudo e con l’aria assonnata.
“Perché diavolo sei già in piedi?”, domandò col consueto tono da figlio di puttana.
“Sono solo le otto del mattino!”. Poi guardò il vestito che indossavo e la giacca posata da una parte.
“Vuoi uscire?”, continuò senza ancora capire.
Io mi alzai lentamente, uscii dalla penombra in cui ero rimasta avvolta e lo guardai. Parve sorpreso dai lividi scuri che avevo in faccia, quasi me li avesse procurati un estraneo. Poi mi indicò i polsi fasciati con aria interrogativa.
“Scommetto che non ti sei nemmeno accorto delle lenzuola sporche di sangue!”, dissi sospirando, troppo stanca anche per parlare, per spiegargli che difficilmente quei solchi impressi dalle manette il giorno prima sarebbero scomparsi senza lasciare profonde tracce su entrambi i polsi. “Me ne vado”, dissi a bassa voce, “ti ho aspettato per salutarti, per pregarti di non cercarmi più”. Lo vidi stringere gli occhi, respirare profondamente, forse nel tentativo di trattenere la collera e poi andare di sopra.
“Mi vesto e ti accompagno”, disse, senza attendere la mia risposta. Non mi andava di vederlo ancora, col rischio magari che tentasse di convincermi a restare, a tornare indietro. Era capace di tutto, anche di fare assurde scenate stile “addio alla stazione” pur di raggiungere i propri scopi, e cioè quello di trattenermi e di ricominciare con i suoi giochetti violenti. Non dovevo più lasciarmi ingannare. Mi avviai verso la porta quando Lui mi raggiunse, dopo essersi infilato un paio di jeans e un pullover. Sorrise aprendomi la porta e per un attimo fui tentata di credere che quanto era avvenuto il giorno prima con Ramona non fosse stato che un brutto sogno, un incubo da dimenticare al più presto, ma poi abbassai gli occhi e senza guardarlo dritto in viso tutto diventò più facile. Salimmo in auto e partimmo, ma già dopo pochi chilometri mi accorsi che non stavamo andando a casa mia.
“Dove stiamo andando?”, domandai improvvisamente sospettosa. Lui disse che voleva portarmi in montagna, dove aveva un cottage molto bello, che purtroppo non aveva mai il tempo di sfruttare appieno.
“Non voglio venire da nessuna parte con te, nemmeno a fare una passeggiata, o una gita in montagna”, dissi decisa.
Lui accostò l’auto al ciglio della strada, si voltò a guardarmi con un sorriso tenero e mi prese le mani tra le sue.
“Ti prego..”, sussurrò, “lasciami qualcosa di bello da ricordare”. Non lo capivo, non lo capivo proprio. Com’era possibile che mi chiedesse tanto? Con che coraggio lo faceva, dopo avermi picchiata, umiliata e derisa? Come poteva pretendere che gli concedessi ancora una possibilità, seppur breve, di stare solo con me, se l’ultima volta ne aveva approfittato per farmi subire le cose più ignobili?
“Ti prego..”, sussurrò di nuovo, e per un attimo pensai che ero io la matta, quella che aveva sognato tutto, perché era veramente pazzesco che una persona potesse cambiare tanto radicalmente in così poco tempo. Tentai di pensare alle cinghiate, alla violenza, ai polsi che ancora mi dolevano, alla sua arroganza, ma stranamente mi vennero in mente solo le risate, i momenti belli, il desiderio folle di lui, gli orgasmi interminabili, le ore trascorse a letto, le notti insonni, il suo cazzo insaziabile dentro di me, nella mia fica vogliosa, affamata di lui.
“Va bene!”, dissi, “Un’ultima volta”.
E così ci avviammo verso le montagne, verso quelle ultime ore insieme.

La casa era un tipico chalet di montagna, una costruzione in legno composta da una stanza che fungeva da soggiorno e cucina, un piccolo bagno e una camera da letto. Era calda e accogliente nonostante lui avesse detto che non ci andava da mesi.
“C’è una persona che se ne occupa in mia assenza”, mi spiegò togliendo delle lenzuola pulite dall’armadio e gettandole sul letto. Lo guardai incredula. “Non stai dando troppe cose per scontate?”, domandai. Lui sorrise amabilmente.
“L’ultima volta, te lo ricordi?”, sussurrò. Non ero dell’umore migliore per scopare, ero ancora troppo provata dalle violenti emozioni del giorno prima, e non mi fidavo di lui. Mi venne vicino, allungò una mano per accarezzarmi una guancia, ed io istintivamente feci un balzo all’indietro.
“Volevo solo sfiorarti”, disse, eppure io mi ero già vista quella mano che calava pesantemente sul mio volto e mi gettava a terra. Era troppo presto, come avrei potuto scordare la sua follia? E poi, perché scordare? Chi mi assicurava che fosse stato solo un momento, un attimo di voglia cieca e distruttiva che però mai più si sarebbe ripetuta? Mi prese le mani tra le sue e cominciò a slegarmi le fasciature intrise di sangue, mentre io lo guardavo come ipnotizzata, senza la forza di oppormici. Finalmente i polsi furono messi a nudo e i tagli apparvero: rossi, umidi di sangue, coi bordi gonfi, infiammati.
“Sembrano le labbra della tua fichetta”, disse, e poi mi prese il palmo di una mano e se lo portò alle labbra. Lo baciò dolcemente e quindi fece scivolare la bocca più in alto, verso il braccio, finché non trovò la ferita aperta. E baciò anche quella. Lo guardai sconvolta e inorridita, e nonostante il senso di repulsione che il suo gesto mi procurava, qualcosa mi proibiva di strappare la mano dalle sue, di impedirgli di continuare quel rituale perverso. Protese la lingua, sfiorò la pelle tumefatta, e poi la immerse nella carne viva, sospirando di un desiderio che sapevo prorompente e ormai inarrestabile. Io urlai, urlai di dolore, o almeno mi parve di gridare, ma forse fu solo un gemito strozzato quello che mi uscì dalle labbra e che mi fece brancolare nel vuoto in preda alle vertigini. Tentai di voltare la testa, di non guardare, ma mi fu impossibile. Dovevo vedere la sua lingua che si immergeva nel mio sangue facendomi urlare per il dolore e per l’irrefrenabile desiderio che compisse gli stessi gesti in un altro taglio boccheggiante, quello della mia fica, che languiva spasimando per una leccata uguale. Accostò anche l’altro polso a quello che teneva già tra le dita e compì gli stessi gesti, lenti e misurati, quasi esasperati dalla calma che pareva essersi impadronita di lui. Di nuovo lo vidi immergere la punta della lingua nella ferita umida e percorrerla interamente. Questa volta urlai veramente e, pur accecata dal dolore, lo implorai di farmi godere, di prendermi. Lui alzò la testa, mi guardò negli occhi, ma io non riuscii a staccarli dalla sua bocca sbavata di sangue.
“Che cosa mi hai fatto?”, sussurrai, e insieme abbassammo lo sguardo sui miei polsi da cui sgorgava un denso fiotto di sangue fresco. Mi aveva letteralmente riaperto le ferite! Caddi sul pavimento, intontita e confusa, e sommariamente mi accorsi che Lui aveva raccolto le bende e velocemente mi stava rifacendo la fasciatura, bloccando l’emorragia. Poi mi prese in braccio e mi distese sul letto.

“Vado a cercare Giorgio, perché ci dia qualcosa di forte da bere”, disse, “Non muoverti! Torno subito..”.
Poi uscì e io rimasi immobile sul letto, ad aspettarlo, sperando che questa persona non abitasse lontano qualche chilometro, e tentando con tutte le mie forze di non pensare, di non cercare di capire, di ignorare gli spasmi e i fremiti voraci nella mia fica. Sollevai i polsi e guardai le bende che andavano inzuppandosi lentamente, convincendomi che ciò avrebbe dovuto ricordarmi la sua follia, la sua violenza, e non la voglia devastante che sapeva scatenarmi dentro! Dopo un po’ udii un tramestio, uno scalpiccio e non feci in tempo ad alzarmi dal letto, che già sulla porta era apparso un uomo, e alle sue spalle Lui. Guardai lo sconosciuto e fui subito certa che si trattasse di Giorgio poiché aveva tutte le caratteristiche dell’uomo di montagna, abituato a stare all’aria aperta: fisico asciutto, volto abbronzato, bicipiti gonfi e una stazza da taglialegna, che mi fece subito immaginare forza e vigore e magari qualcosa di notevole dentro i pantaloni. Gli tesi una mano per salutarlo ma lui fu lesto a prendermela e a mettermi in piedi con uno strattone.
“Ma che diavole vuole questo?”, protestai voltandomi verso quello che era stato il mio Padrone, e uell’abbozzo di sorriso che gli vidi stampato in faccia mi fece presagire il peggio. Non potevo esserci cascata di nuovo, Era assurdo che fosse riuscito a riprendermi in trappola
“Non lasciarglielo fare, ti prego!”, implorai mentre lo sconosciuto mi trascinava contro la parete, mi alzava le braccia e mi legava i polsi alle grate di ferro della finestra. Ma fu inutile e soprattutto troppo tardi. Mi ritrovai così col viso contro il muro, i polsi che stritolati dalle corde mi facevano impazzire di dolore, e un energumeno alle spalle disposto a tutto in cambio di quello che ovviamente gli era stato promesso.
Quando lo sentii strapparmi la camicetta sulla schiena fui certa di aver fatto il peggior errore della mia vita, ma anche che avrei avuto tutto il tempo e le occasioni per pagarlo di persona.
Giorgio mi strappò la gonna e naturalmente gli slip, poi si voltò a guardare Lui con aria interrogativa. Lui annuì in silenzio e allora Giorgio si tolse la lunga frusta di cuoio dalla tasca del giubbotto e la fece vibrare nell’aria. La prima sferzata mi fece voltare la testa di scatto contro la parete e sobbalzare con un gemito. La seconda mi fece urlare e addossare al muro, nel vano tentativo di sfuggire alla furia disumana dello sconosciuto. La terza mi fece gridare, piangere e implorare pietà. Poi per parecchio tempo ci fu solo un dolore insopportabile, il gusto salato delle lacrime, il rumore delle mie urla che pareva giungere da molto lontano e confondersi col respiro affannoso ed eccitato dell’uomo che mi frustava, affaticato dallo sforzo con cui abbatteva il nastro di cuoio sulla mia schiena.
Quando lo stridere delle mie urla terminò, non avendo quasi più fiato nemmeno per respirare, mi accorsi che il dolore mi percorreva la schiena non più per le frustate di Giorgio, ma semplicemente a causa della lingua di Lui che, come aveva fatto prima sui miei polsi, ora mi percorreva i solchi scavati nella schiena, dal basso verso l’alto. Me li leccava con un tale gusto perverso da darmi i brividi. Avrei voluto dirgli di smetterla, perché mi faceva male, ma dubitavo che ciò gli interessasse, quindi lo lasciai godere del mio corpo martoriato. Lo lasciai eccitarsi con i miei sussulti e i miei gemiti di sofferenza. Non potevo certo oppormi, nelle mie condizioni, e comunque non avrei avuto la forza di farlo. Quando fu sazio mi slegò, mi adagiò sul letto prona, poi chiamò Giorgio. Questi, quando riapparve nel mio campo visivo, aveva gli occhi lucidi, il volto arrossato e un’aria strana, confusa. Abbassai gli occhi tra le sue gambe e capii cosa avesse: c’era qualcosa di grosso e fremente che gli tendeva la cerniera dei pantaloni, qualcosa che si era nutrito delle mie lacrime e delle mie urla per crescere e tendersi a dismisura. Mi domandai se fosse possibile desiderarlo nonostante tutto. Se fosse possibile desiderare anche quest’uomo, questo sconosciuto complice del mio carceriere. Razionalmente no, non doveva essere possibile, eppure appena lui seguendo un preciso ordine, cominciò a calarsi i pantaloni, ne dubitai. Qualcosa mi si agitò dentro, qualcosa che sapevo malsano e pericoloso, ma allettante come un canto di sirene.
Il cazzo di Giorgio balzò fuori dai calzoni come un grosso biscione, scuro e congestionato, lustro di densi umori. Provai l’istintivo impulso di allungare una mano per afferrarlo, ma ero ancora legata e comunque non sarebbe stata una buona mossa. Come potevo convincerli a rinunciare ai loro sadici giochi se poi cedevo di buon grado non appena mi strofinavano l’uccello sotto il naso?
Mi sentii sollevare per i fianchi e poi adagiare su di un cumulo di coperte, in una posizione innaturale e di chiara offerta.
“Non potete violentarmi e sperare di farla franca!”, sussurrai sollevando la testa per guardare in faccia Lui. “Dovrete pagare per tutto questo!”. Lui sorrise, allungò una mano per accarezzarmi i capelli, e col tono che probabilmente avrebbe usato con un bambino, mi spiegò che si trattava di un gioco, di un innocente gioco.
“Tu hai sempre detto di essere mia, di appartenermi…”, spiegò, “ed io sono generoso. Divido sempre ciò che è mio con gli amici!”. Poi mi afferrò per i capelli e me li tirò con violenza, per tenermi il viso rivolto verso di lui.
“Qualcosa da obiettare?”, domandò improvvisamente ansante.
Avrei voluto mandarlo al diavolo, mordergli la mano, picchiarlo, ma ero legata stretta e oltretutto Giorgio mi si era accovacciato contro le cosce, con propositi facilmente intuibili. Infatti dopo un attimo mi sentii letteralmente spalancare il culo e riempire da qualcosa che mi sembrò un enorme tizzone ardente e deciso. Ero stretta, spaventata e forse più eccitata a livello mentale che non fisico, ma ugualmente lui si fece largo nel mio sfintere e incurante delle mie urla vi si annidò il più profondamente possibile, dove neppure dimenandomi come un’anguilla sarei più riuscita a scalzarlo. Mi quietai nel tentativo di riprendere fiato, ma già un altro nerboruto arnese era pronto a far tacere le mie suppliche. Mi ritrovai una cappella gonfia in bocca così all’improvviso, da sentirmi mancare il respiro, ma di questo Lui non si curò minimamente, e con una mano continuò a tenermi la testa premuta sul proprio cazzo mentre con l’altra ripercorreva i tagli sulla mia schiena, insinuando un dito in ogni solco, così che il dolore tornasse a divorarmi la carne.
“Sarai libera solo dopo averci fatto godere”, sibilò Lui e poi, contemporaneamente, iniziarono a stantuffarmi, bocca e culo, andando e venendo con tanto vigore da indolenzirmi tutta. E se per caso tentavo di allontanarmi da Giorgio, spingendomi in avanti mi trovavo la gola completamente ostruita dal cazzo di Lui, mentre se cercavo di riprendere fiato e sfuggire al suo randello impaziente mi ritrovavo impalata fino alle viscere. Era come essere attraversata da parte a parte da un lungo manico duro e solleticata sulla schiena da lunghi artigli acuminati. Ormai era fin troppo chiaro che realmente avrei avuto un po’ di pace solo svuotandoli completamente, spompandoli a tal punto da lasciarli accasciati sul letto, esausti e dimentichi di me.
Convinta che fosse la mia unica possibilità di salvezza, cercai di dimenticare il dolore e di concentrarmi unicamente sul piacere che dovevo procurar loro. Allungai la lingua sulla cappella di Lui e con l’avidità golosa e assetata di una ninfomane, gliela lappai a lungo, abilmente, succhiando senza mai staccare la bocca, fino a strappargli disperati e animaleschi gemiti di godimento. Eppure sapevo che far godere uno solo dei due non sarebbe stato sufficiente, quindi allargai le cosce, rilassai i muscoli del ventre e immediatamente il cazzo di Giorgio mi scivolò più in fondo. Volutamente mi ammorbidii e con un movimento da vera cagna, presi a contrarre ritmicamente lo stretto anello dello sfintere, così che l’uomo avesse la sensazione di essere persino succhiato dal mio culo.
“Ecco, finalmente hai capito!”, sospirò Lui. “L’unico modo per uscire di qui sulle tue gambe è quello di comportarti come una brava puttana”.
Tentai di non dare importanza alle sue minacce e di pensare unicamente a farlo sborrare, succhiando e spompinando fino ad avere il collo indolenzito. Il suo cazzo era grossissimo, duro, e quando le prime gocce di sborra gli inumidirono la cappella, non potei fare a meno di gemere di piacere e di esaltazione.
Ce la stavo facendo. Stava per cedere!
Sicuramente ero la miglior pompinara che glielo avesse mai succhiato. E anche Giorgio sembrava essere al limite della resistenza. Sentivo il suo respiro veloce e i fremiti e i sussulti del suo ventre che vibrava avanti e indietro, stantuffando sempre più in fretta. Era fantastico avere la gola e il culo pieni, sentirsi così colma, essere stata capace di portarli ad un tale livello di eccitamento. Mi sentivo il clitoride teso, gonfio, e strofinarlo contro i cuscini mi diede un piacere tanto intenso da farmi quasi venire. Avrei voluto da impazzire che uno dei due allungasse due dita per strizzarmelo e farmi colare dalla fica tutto il denso succo di cui era gonfia. Improvvisamente mi accorsi di essere eccitata come una porca, di godere di quei due mostri depravati che solo fino a qualche minuto prima mi avevano torturata.

“E così sei già stanca!”, esclamò Lui adirato. Senza rendermene conto, pensando al mio piacere, avevo rallentato il ritmo e avevo lasciato che il suo cazzo si afflosciasse nella mia bocca. Sapevo che non me lo avrebbe perdonato. Lo vidi staccarsi da me come una furia, allontanare Giorgio e strapparmi i cuscini da sotto il ventre.
“No, ti prego, ricomincerò da capo. Te lo succhierò per ore. Non picchiarmi ancora!”, implorai mentre lui mi girava supina.
Tutta l’eccitazione era scivolata via dal mio corpo a al suo posto era rimasta solo una patina di sudore freddo, dettato senza dubbio dal panico in cui ero nuovamente piombata. Lo guardai mentre toglieva dalla tasca dei pantaloni abbassati alle caviglie un astuccio di cuoio lungo e stretto, ne svitava il tappo e poi ne estraeva dei lunghi spilloni di metallo. Spalancai gli occhi inorridita. Quello non era più un gioco, ma una follia. Tentai di allontanarmi verso il bordo del letto, ma Giorgio mi teneva stretta per i fianchi e ghignava come un demonio. Di fronte al mio terrore, il cazzo di entrambi era immediatamente tornato rigido, eppure Lui non si accontentò di questo e proseguì nel suo folle progetto. “Se è il dolore che ti eccita tanto…”, sussurrò. “hai trovato il genio della lampada, quello che avvererà ogni tuo desiderio!”, e così dicendo mi strinse un seno tra le mani e lentamente vi conficcò lo spillone.
Urlai, mentre quell’affare di metallo pareva trafiggermi il petto da parte a parte. Ma lui non si fermò e continuò a infilzarmi finché non ne ebbi tre attorno ad ogni capezzolo. Le prime gocce di sangue resero Giorgio completamente folle. Non attese neppure il permesso per spalancarmi le cosce e conficcarmi il cazzo nella fica.
“Maledetta troia, ti sfonderò a sangue!”, urlò, e io me lo sentii affondare sino allo stomaco e straziarmi almeno quanto gli aghi che avevo nelle tette. Abbassai gli occhi e incredula notai che i capezzoli mi erano diventati duri, tanto che Lui si chinò a leccarmeli e a succhiarli come fossero stati piccoli cazzi. “Si, bagnati come una cagna, annegami l’uccello nel tuo succo!”, mugolava Giorgio col cazzo completamente annegato nella mia ciprigna.
Ero arrapata come non mai, terrorizzata e vogliosa. Quando Lui mi sfiorò le labbra con la punta del cazzo, spalancai subito la bocca e lo accolsi senza più fingere. Lo succhiai interamente, fino a farmi venire gli occhi lucidi per lo sforzo di accoglierlo tutto, ma mai gli avrei permesso di togliermelo ancora dalla bocca. Spalancai le cosce e mentre Giorgio mi inondava con un torrente di seme bollente, io ingoiavo i fiotti di Lui, più che mai conscia della presenza dolorosa degli aghi conficcati accanto ai capezzoli. Proprio per questo ero tanto eccitata da godere finalmente insieme ai miei due carnefici.

continua...........................
 
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16 replies since 26/12/2012, 15:14   6219 views
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