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MEMORIE DI UNA CAGNA

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-triskell-
view post Posted on 20/1/2013, 11:36 by: -triskell-     +1   -1
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Memorie di una cagna – 12

Giorgio mi permise di stare seduta sul letto, quindi mi slegò le caviglie dal fondo e si limitò a legarmele l’una contro l’altra. Non potevo andare a spasso per la stanza quindi, ma almeno non ero distesa. Gli domandai di cambiarmi le lenzuola ma lui rispose che non era importante. Mi guardai attorno. Le coperte erano un groviglio di tessuti sul pavimento, la federa del cuscino si era strappata, chissà quando, e il materasso era rorido di sangue, sborra, lacrime….
Vivevo nuda in quel letto da giorni ormai. Lui non si era più fatto vivo, o almeno non con me. Forse Giorgio aveva ragione: ero semplicemente stata regalata ad un altro uomo, ora avevo un nuovo padrone. C’erano giorni in cui stentavo a ricordare il colore dei Suoi occhi, giorni in cui dubitavo fosse mai esistito un personaggio a cui avevo permesso di trasformarmi in un animale. Mi ripetevo che se avessi dovuto rincontrarlo lo avrei ucciso sicuramente, ma sapevo di mentire a me stessa. Probabilmente gli sarei caduta ai piedi e lo avrei implorato di riprendermi con lui, a qualunque costo. Ma lui non tornava, non mi cercava e i giorni erano molto simili gli uni agli altri. Giorgio non mi frustava più ormai, dopo le prime volte si era stancato. Giorgio era un animale, mi usava per godere, per soddisfare le sue voglie improvvise, ma non mi incendiava il sangue come sapeva fare il mio Padrone. Non desiderava le mie urla, non sembrava goderne. Se mi picchiava, a volte io gridavo, e a volte singhiozzavo in silenzio. Subivo come subirebbe qualcuno che non può difendersi, senza sentirmi divisa dal dolore e dal piacere come all’inizio.
Credo che quello che avevo provato per Giorgio all’inizio non fosse altro che un prolungamento che il mio Padrone aveva scatenato in me, ma ora che non sarebbe più tornato, il dolore era dolore e il piacere qualcosa di estremamente fisico e molto poco cerebrale. Godevo quando Giorgio mi ficcava dentro il cazzo all’improvviso, stantuffandomi di gran lena e per lungo tempo, ma la maggior parte delle volte dovevo ricordare le Sue mani per venire veramente. Pensavo alla Sua forza, ai suoi sospiri, alle sue urla. Ricordavo la rabbia, la violenza con cui mi trascinava sul pavimento per fottermi come una cagna, e allora l’orgasmo giungeva prorompente e inaspettato, carico di rabbia e di rimorsi. Ma è possibile avere nostalgia del dolore? Di un dolore autentico e lancinante, un dolore che logora e distrugge? E’ possibile, mi domandavo, continuare ad appartenere ad un uomo anche dopo che ti ha ceduta e se ne è andato per sempre? Chiamai Giorgio che trafficava nell’altra stanza.
“Ho bisogno del bagno”, dissi. Lui annuì, poi mi slegò le braccia dalla testata del letto, mi chiuse i polsi in un paio di manette perché le catene pesavano troppo per trascinarmele in giro, e mi fece inginocchiare sul pavimento, col ventre appoggiato al materasso. Poi si sistemò dietro di me e prese a slapparmi il culo voracemente. Era la solita trafila, un rituale quasi, che si ripeteva ogni volta. Lo lasciai fare. Lasciai che mi slappasse il solco tra le chiappe, che mi insinuasse la punta della lingua insistentemente, finché non mi aprivo e mi rendevo del tutto disponibile. Intanto la sua mano scivolava tra le mie cosce, mi strizzava la fica, me la sgrillettava con le unghie finché non sentiva il clitoride tendersi e indurirsi. Poteva andare avanti per ore così, purché infine mi sentissi veramente arrapata, tesa e umida, dilatata nell’attesa di qualcosa di solido che mi colmasse il ventre bruciante.
“Lo vedi che ti piace? Che lo vuoi anche tu, alla fine?”, sussurrò, soddisfatto.
Non risposi. La verità era che non lo volevo, non lo desideravo. Era la mia fica a non ubbidirmi. “Ora sai cosa devi fare, non è vero?”, ansimò. Io non volevo farlo, non avevo alcuna voglia di soccombere sempre a quella sua ripugnante mania, a quell’insistente desiderio di umiliarmi. Sapeva benissimo che odiavo quello che mi stava facendo fare, che non lo trovavo affatto eccitante ma proprio per questo lui lo adorava. Godeva molto di più nell’umiliarmi ormai che non picchiandomi a sangue. Quindi, scuotendo la testa per l’impossibilità di accettare quel gesto, nonostante non fosse la prima volta che mi costringeva a compierlo, allungai le mani tra le cosce e passandomele sotto la fica andai ad allargarmi il buco del culo.
“Ti prego, no!”, implorai per l’ultima volta, ma lui fu irremovibile. Affondai la testa nel materasso, come se non vedendo avessi potuto impedire anche a lui di guardarmi, e svuotai l’intestino di fronte ai suoi occhi. Presi a singhiozzare non appena sentii le mie stesse dita imbrattate e appiccicose e l’ansimo di lui che come al solito si faceva una sega gustandosi lo spettacolo. Mi domandai vagamente cosa mi spingesse ad accettare tutto questo: il timore di venir picchiata se non avessi ubbidito o forse la speranza che dietro a tutto ciò ci fosse ancora il volere del Padrone, il suo desiderio di possesso totale, anche indiretto quindi?
“Brava, brava, non smettere!”, sibilò Giorgio alle mie spalle, ed io potevo quasi udire lo strofinio esasperato del suo pugno.
“Fai presto, sbrigati!”, implorai perché realmente non lo avrei sopportato un secondo di più. Era abominevole tutto ciò, mi riduceva realmente al livello di una bestia, o peggio, di un semplice oggetto. Possibile che non avrebbe più contato niente quel che io volevo o non volevo?
“Grandissima troia!”, sibilò Giorgio. “Fai proprio di tutto, non sai rifiutare nulla al tuo Padrone!”. Ma io avrei voluto gridare che avevo avuto un solo Padrone, tutto il resto non era che un ostinato tentativo di far rivivere qualcosa che forse non ci sarebbe più stato.
“Puttana!”, urlò all’improvviso quando lo implorai di smetterla, “Non fiatare!”.
Lo sentii avvicinarsi e non ebbi il coraggio di immaginare ciò che avrebbe fatto.
“Devi solo ubbidire e il mio piacere diverrà anche il tuo!”.
Poi ordinandomi di non togliere le mani da dove le stavo tenendo, puntò l’uccello contro il mio culo, e me lo ficcò dentro.
“Oh, no, ti prego!, gridai, ma lui si era già insinuato in profondità e una volta ancoratosi al fondo del mio intestino sapevo bene che non lo avrei più disarcionato. Mi afferrò per i fianchi e prese a pomparmi velocemente, sgroppandomi sopra come un animale. Io sentivo bene il suo cazzo, duro come l’acciaio, che mi scivolava tra le dita e poi mi si conficcava nel culo, incurante di tutto il resto.
“Godo, sì, me lo fai diventare duro come il granito”, gridò sbavandomi sul collo. In effetti lo sentii gonfiarsi a dismisura e divenire saldo come un tronco d’albero, ma quando sospirai convinta che finalmente avrei avuto tregua me lo strappò fuori dal culo e me lo sprofondò abilmente nella fica. Sobbalzai e sebbene la mia testa tentasse di convincermi che tutto ciò era ripugnante, la mia sorca vogliosa la pensava in maniera ben diversa. I miei densi succhi andarono ad imbrattare ulteriormente l’asta di Giorgio che così lubrificata scivolò avanti
e indietro senza il minimo sforzo nel mio ventre voglioso. Sì, la verità era che avevo la fica gonfia come una pesca, dilatata e accogliente, scossa da spasmi febbrili che potevano essere quelli di una bocca affamata, una bocca capace di fare qualcosa di molto simile a un godurioso pompino. Poi venne copiosamente dentro di me ed ebbi pace. Come sempre era toccato a me poi ripulire tutto, e sotto la stretta sorveglianza di Giorgio, naturalmente. Mi rimise a letto, legata mani e piedi e poi uscì dalla stanza. Chiusi gli occhi.
Finalmente tornò il buio, non ne potevo più della luce elettrica.
Mi sforzai di pensare a qualcosa di bello, di non ricominciare a domandarmi quando sarebbe finita quella follia che mi aveva invasa come una malattia. Un giorno sarei stata di nuovo libera e forse sarei andata a cercare il mio Padrone. Sì, lo avrei cercato anche tutta la vita pur di potergli mettere le mani addosso e fargli pagare tutto il male che mi aveva fatto. Me lo immaginai, o meglio lo sognai, tra tanti altri maschi presuntuosi e arroganti, che parevano avere tutti il viso di Giorgio. Erano allineati contro una parete, completamente nudi, legati con le mani sopra la testa. Tremavano, sicuramente di paura. Poi nel mio sogno confuso apparve una donna, una giovane donna con occhi da gatta assassina, che indossava stivali di cuoio e un corsetto da cui sbucavano i capezzoli tesi e la fica polposa. Quella donna ero io, ne ero certa. La vidi avvicinarsi a quei maschi improvvisamente mansueti come agnellini e, nonostante questo, non aver pietà. Affondò le unghie nel petto di ciascuno di loro e poi, con un sorriso sadico sul volto, ricamò i loro corpi di lunghi graffi sanguinanti. Mi pareva quasi di sentirlo veramente il calore del sangue sotto le unghie e la pelle che vi rimaneva impigliata come negli artigli di una tigre. Gli uomini urlavano, si dibattevano e le loro smorfie di dolore erano autentiche, le loro grida agghiaccianti, ma la donna sapeva solo sorridere. Poi si chinò di fronte a uno di loro, si inginocchiò col viso all’altezza del cazzo dell’uomo e glielo prese in bocca. Prese a succhiare come una gran troia, a leccare i coglioni gonfi di seme, ad accarezzare le lunghe cosce frementi, il ventre sussultante. Leccava senza essere mai sazia, succhiava come la più incallita pompinara, mentre le mani vagavano dappertutto, dispensando carezze dolci da far rabbrividire.
“Godi, amore mio”, sussurrava di tanto in tanto, staccando la bocca per meglio leccare la cappella lucente, “riempimi tutta la bocca della tua sborra rovente, fammi sentire una donna vera, soffocami col tuo cazzo impaziente!”.
L’uomo ansimava e si dibatteva, diviso dal desiderio di lasciarsi andare e svuotare le palle in quella gola assetata, e l’orrore di stare al gioco. “Ti farò morire di voglia!”, gridò lei ad un certo punto. E allora qualcosa fu chiaro come un film: l’uomo aveva un anello di metallo infilato alla base del cazzo, che glielo stritolava sempre più man mano che l’erezione glielo faceva diventare gonfio e grosso.
“Ti farò morire di goduria!”, ripeté lei e infatti l’uomo sospirò, spalancò la bocca e si abbandonò all’orgasmo. La sborra esplose come un torrente in piena nella gola di lei, mentre l’anello di metallo cadeva a terra.
“Oh, sì, sì, godo!”, gridò l’uomo come molto da lontano, ma poi strabuzzò gli occhi e rimase come paralizzato. La donna si rialzò vittoriosa, col volto sbavato di sangue e il cazzo del maschio tra i denti. Nel sogno mi sentii molto forte, come chi ha appena consumato una grande vendetta. Sì, ero proprio io la donna del sogno, con l’aria famelica e impietosa. Mi sentii sfiorare da una mano, una mano indubbiamente maschile. Come era possibile se erano tutti legati contro il muro, in mia balia, di mia proprietà?
Mi voltai lentamente, ma avevo già riconosciuto quelle mani morbide e forti, quella stretta violenta e distruttiva: Lui era tornato…. ..
Spalancai gli occhi e me lo trovai di fronte. Doveva essere ancora un sogno, non poteva essere vero! Lo guardai negli occhi e il tempo parve correre a ritroso e fermarsi al giorno in cui se ne era andato. Niente era mutato, niente di quel che era avvenuto nel frattempo aveva avuto importanza. Lui era ancora lì, con me, come non fosse mai fuggito. Sorrisi e intrecciai le dita alle sue.
“Te ne andrai di nuovo?”, domandai quasi col timore che parlare a voce troppo alta avrebbe spezzato l’incantesimo.
“Sono tornato!”, fu l’unica risposta.
Poi d’un tratto mi parve di vedermi riflessa nei suoi occhi come in uno specchio, e allora balzai indietro inorridita. Dovevo sembrargli un mostro così conciata, una selvaggia. Mi rannicchiai in un angolo e lo guardai indecisa: avrei voluto gettarmi ai suoi piedi e implorarlo di tenermi sempre con sé, di farmi ciò che voleva ma di non abbandonarmi mai più eppure… Eppure tutto il tormento delle ore trascorse insieme stava tornando a galla, all’improvviso. Che cosa potevo fare? Cosa volevo veramente? Lasciai che fosse Lui a scegliere, come sempre. Lasciai che fosse Lui a decidere cosa doveva esserne di me. Mi fece stendere sul letto, senza parlare.
Ma il suo non fu un bacio tenero e dolce come di chi ritorna dopo una lunga assenza. Il suo fu un bacio violento, impaziente. Un bacio che sapeva di smania di mordere, di affondare dentro di me, nella mia bocca come nella fica. Lui sapeva di rabbia e di forza. Odorava quasi di violenza. Gli gettai le braccia legate insieme dalle catene dietro il collo, e poi mi abbandonai a lui.
“Sì, sì divorami”, implorai con un sospiro che nasceva dal fondo dell’anima, “fa’ di me quello che vuoi!”.
E allora fu come tornare a casa dopo tanto tempo, tornare al sicuro di una vita confusa e ingovernabile, l’unica che avessi mai conosciuto assieme a Lui. Che si liberò dal mio abbraccio con gli occhi lucidi e il respiro affannoso e con qualcosa di duro e impaziente che gli riempiva i pantaloni all’altezza dell’inguine. Mi distese nuovamente sul cuscino e mi liberò dalle catene. Lo guardai incredula: veramente saremmo tornati a casa, noi due soli, senza più dolore, senza più violenza, senza follia!. Prese le mie mani e se le portò alle labbra, le baciò teneramente e poi s’infilò un dito in bocca e lo succhiò. Mi guardava e sono certa che sentissimo la stessa emozione incendiarci i sensi e farci ribollire il sangue. Prese l’altra mano e mi succhiò anche quelle dita. Avevo avuto le catene per così tanti giorni che mi pareva strano aver i polsi tanto leggeri. Potevo muovere le mani ora, tendere le braccia per stringerlo, attirarlo a me e accarezzarlo. Potevo finalmente prendere l’iniziativa di insinuare le dita nella cerniera dei suoi calzoni e sfiorarlo dov’era più duro e palpitante. Urlai quando me lo ritrovai finalmente sotto le dita, urlai del piacere di aver trovato qualcosa che era come una parte di me. Ma lui mi bloccò con un gesto e si prodigò a sfilarmi gli aghi dai capezzoli, quelli che lui stesso mi aveva conficcato prima di andarsene e che Giorgio non mi aveva mai tolto. Ormai avevo imparato a conviverci e il dolore non era più lancinante come le prime volte. Potevo anche dormire a pancia in giù, ugualmente sapevo trovare la posizione migliore perché non mi si conficcassero ulteriormente nella carne.
Quando me li sfilò fu come se sradicasse qualcosa che era ormai divenuto parte del mio corpo e mi pareva naturale quindi che, rompendosi i coaguli, il sangue tornasse a scorrere. Mi parve naturale che insieme a Lui fosse tornato il dolore, il piacere, il sangue, l’impazienza: Lui era tutto questo e io potevo sopravvivere solo con lui.

continua.............................
 
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16 replies since 26/12/2012, 15:14   6219 views
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