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MEMORIE DI UNA CAGNA

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-triskell-
view post Posted on 21/1/2013, 14:59 by: -triskell-     +1   -1
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Memorie di una cagna – 13

“Perché te ne sei andato? Perché hai permesso che Giorgio mi trattasse come una puttana?”, domandai soffocando un sospiro.
Lui era chino su di me, sui miei capezzoli gonfi e martoriati, e mi leccava ogni gocciolina di sangue come stesse per morire di sete.
“Perché mi hai lasciato credere che non ti avrei più rivisto?”, domandai ancora con la pazzesca voglia di picchiarlo per quanto mi aveva fatto soffrire. Lui non rispose. Sollevai il viso, lo guardai far guizzare la lingua voracemente ed ebbi voglia di urlare. Era possibile che desiderassi anche il dolore, purché mi venisse da lui? Gli afferrai la nuca con le mani e gli spinsi la testa ancor più contro il mio seno, con forza, finché non sentii i suoi denti.
“Mordimi!”, implorai, non potendo evitare di associare il dolore al piacere, non riuscendo a dimenticare che dopo le lacrime veniva sempre l’orgasmo. Ma lui esitava, mi lambiva dolcemente, facendomi solo intuire la forza che ricordavo. Era tenero e appassionato, così come avevo sempre sognato che fosse il nostro rapporto. Dolce e sincero. Era autentico, spontaneo, eppure in tutto ciò si celava un’attesa che stava diventando così esasperata da rendermi frenetica e impaziente. Guardai le sue mani che si posavano leggermente attorno ai miei capezzoli, che accarezzavano, che scivolavano quasi distrattamente verso il mio ventre. Mugolai scuotendo la testa. Dov’era la forza, la rabbia, la follia? Perché le sue dita non tracciavano solchi profondi nella mia pelle? Perché i suoi baci non mi si sprofondavano nella carne? Perché le sue mani non andavano a intingersi nel mio sangue per incendiarmi l’anima?
“Ti prego, ti prego!”, implorai quasi con le lacrime agli occhi, annientata dall’attesa di ciò che avevo creduto di odiare.
“Ti prego che cosa?”, sibilò lui senza staccare la bocca. E allora mi accorsi che nemmeno lui era insensibile ai miei palpiti e ai miei fremiti di nostalgia. Mi resi conto che aveva piena coscienza di ciò che andava scatenandomi dentro.
“Non ti piacciono più le mie carezze e i miei baci?”, domandò sfiorandomi con un dito il clitoride gonfio. “Non vuoi più che faccia l’amore con te?”.
Lo strinsi con forza. Sì, sì che volevo che mi prendesse, che sprofondasse nuovamente dentro di me, ma come spiegargli che desideravo ancora quella violenza per cui giorni prima lo avevo tanto odiato?
“Cosa vuoi? Rispondi!”, insistette lui. Ma forse non avrei mai trovato il coraggio di confessargli la verità.
“Che cosa vuoi da me?”, ringhiò contro la mia bocca, mentre la mano tra le mie cosce diveniva una morsa e mi stringeva tanto da farmi urlare. Lo guardai implorante, perché smettesse o perché continuasse? E la reazione istintiva sarebbe stata quella di scostargli la mano e impedirgli di continuare a stritolarmi il clitoride, ma non lo feci. Rimasi sotto di lui, dimenandomi nel tentativo di svincolarmi, ma senza alzare un solo dito per fermarlo. “Che cosa vuoi da me?, andava ripetendo in un sussurro a denti stretti, affondando anche le unghie nella carne della mia fica umida e gonfia. Non riuscivo a rispondergli. Insieme al dolore c’era il piacere,
insieme alla sofferenza il desiderio e l’urlo che non riuscii a trattenere era di dolore, ma fu subito soffocato da un impetuoso orgasmo.
Mi abbandonai tra le sue braccia, mezza intontita, così colma di lui, della sua presenza, da sentirmi realmente un suo prolungamento, o forse, anzi certamente, una sua proprietà. Ma mi andava bene anche così, era ciò che volevo. Appartenergli.
Lo sentii che si alzava lentamente dal letto, quasi per non disturbare il mio sonnacchioso abbandono. Non aprii gli occhi. Lo immaginai intento a racimolare la mia roba, a cercare il mio vestito per prepararci a tornare a casa. Udii un rumore di ferraglia proprio sopra la mia testa. Sicuramente stava togliendo le catene per riporle in un cassetto, non era il caso di portarle a casa. Stavo bene sì, mi parevano secoli che non mi sentivo così appagata e tranquilla.
Sentii il sonno che mi avviluppava lentamente, che mi trascinava in un sogno silenzioso.
Ma d’un tratto un dolore acuto mi fece spalancare gli occhi. Mi guardai attorno intontita e confusa, allungando le mani sul mio corpo in cerca del punto in cui me lo sentii trafitto da fitte lancinanti. Lui era sopra di me. Lo guardai incredula, mentre mi si riempivano gli occhi di lacrime, incapace di coordinare i movimenti, di rendermi conto di cosa stesse succedendo. Poi, prima che potessi chinare il capo, me lo ritrovai faccia a faccia, labbra contro labbra, che soffocava le mie proteste confuse infilandomi tutta la lingua in bocca. Boccheggiai tentando di scansarlo, ma il dolore mi esplose nella testa.
Sentivo solo un sordo pulsare che mi impediva di pensare, di agire. Del resto non so cosa avrei potuto fare. Lui mi copriva letteralmente col proprio corpo.
Aveva il cazzo duro, gonfio, che mi premeva contro il ventre. Indossava solo la camicia e quel bastone di carne rovente era quindi libero di insinuarsi nelle pieghe del mio corpo, di ritrarsi e poi di nuovo sondarmi. Solo vagamente mi rendevo conto del suo respiro affannoso, della lingua che insaziabile continuava a frugarmi il palato, delle sue mani ancorate ai miei polsi, che mi tenevano inchiodata al letto. Mi spalancò le cosce e prese a strofinarmi la cappella umida attorno alle grandi labbra. Lo lasciai fare, troppo sconvolta per preoccuparmi del suo desiderio. Pareva quasi che il dolore venisse da lui, dal suo corpo premuto contro il mio, che mi si agitava sopra come un essere famelico.
“Lasciami!”, gridai quando finalmente mi permise di respirare e affondò la testa nel mio collo. Ma una decisa stoccata mi penetrò tra le cosce, completamente, smorzando quel mio affannoso agitarmi. Ora concentrarmi solo sul dolore divenne un puro atto di volontà. Quel randello pulsante che mi trafiggeva senza pietà non era più ignorabile e, nonostante l’acuta sofferenza che mi martellava dappertutto, tornai ad avere coscienza di tutto il mio corpo, e soprattutto della mia fica. Chiusi gli occhi e mi resi conto ancora di più di lui che si agitava sopra di me, dimenando i fianchi per spingermelo sempre più dentro. Lo sentii sgusciare avanti e indietro come un pistone, e questo mi fece pensare alla mia fica allagata di umori densi e odorosi, al desiderio di essere tutta aperta e poi irrorata del suo prezioso succo. Il calore del godimento mi si diffuse lungo le cosce fino alle dita dei piedi e poi di nuovo risalì fino a colmarmi il ventre sussultante. Ero calda, aperta, disponibile e quel cazzo mi conosceva bene e sapeva il ritmo della mia sorcetta, quello con cui doveva essere suonata. Lui tornò a baciarmi e questa volta non mi opposi anzi, gli leccai le labbra con la punta della lingua, gliele succhiai, impaziente di bere dalla sua bocca. Il bruciore del mio ventre si contrappose a quel freddo che mi tormentava, sotto il suo petto. Ecco, finalmente avevo localizzato la causa del dolore: era il continuo strofinarsi dell’uomo contro il mio seno. Era tutto lì il male che mi aveva trafitta, quasi che il suo desiderio di vedermi soffrire si fosse concretizzato dentro la sua anima come un pugnale e mi stesse ora trafiggendo il cuore. Ma non lo scostai, non tentai più di sottrarmi. Il piacere che provavo riusciva a soffocare e annientare tutto ciò che non fosse il suo cazzo che mi rovistava sempre più energicamente. Io stessa spalancai le cosce e mi inarcai verso quella sua lama di fuoco.
“Sì, eccolo, fammelo sentire tutto!”, ansimai arrendendomi per l’ennesima volta sotto i colpi del suo maglio. “Ti voglio da morire, sfondami senza pietà”, dissi. Lui era enorme, duro e impaziente almeno quanto me, e quando mi sentì chiudere le cosce per afferrarlo, e contrarre la fichetta come una bocca, mi prese la testa tra le mani e la strinse.
“Sei mia, mi appartieni!”, ringhiò e poi un caldo torrente di sborra mi inondò fino allo stomaco, e venni insieme a lui.
Si alzò lentamente dal mio corpo e la prima cosa che notai fu la sua camicia macchiata di sangue all’altezza del petto. Solo quando fu sceso dal letto abbassai gli occhi e mi accorsi che quel sangue era il mio e proveniva da un anello di metallo conficcato nel mio capezzolo sinistro. Allungai la mano e mi toccai il seno inorridita. Non usciva più sangue e il dolore si era momentaneamente quietato, ma al minimo movimento la catena che vi era attaccata me lo avrebbe strattonato. Era pazzesco, stentavo a crederci. Ecco perché mi aveva liberato le mani, unicamente per incatenarmi in quest’altro barbaro modo.
“Ma non andiamo a casa?”, domandai stupidamente colta da improvviso terrore.
Lui rise, si infilò i pantaloni, si sedette su una sedia e chiamò Ramona.
“Che significa questo?”, gridai vedendola apparire nella stanza.
“Eccola qui tesoro, è tutta per te”, le disse lui.
Lo guardai con occhi di ghiaccio. Non era cambiato niente allora, era tornato da me solo per divertirsi ancora un po’? Vidi lei avvicinarsi con aria altezzosa. Aveva addosso un vestito rosso che lui mi aveva comprato mesi prima e che sicuramente quella troia aveva preso nel mio armadio, o forse era stato lui stesso a regalarglielo. Calzava sandali dai tacchi alti, era truccata, pettinata e al polso aveva un bracciale d’oro che lui mi aveva regalato il secondo giorno che ero andata a vivere a casa sua, dicendo che con quella grossa catena al braccio non gli sarei più sfuggita.
“Schifosa puttana!”, urlai quando fu a pochi passi dal letto e, trovandomi con le mani inaspettatamente libere, mi tuffai sul suo viso con le unghie in mostra come artigli. Troppo tardi mi ricordai di avere una catena attaccata al capezzolo e lo strattone che ne ebbi mi fece contorcere in una smorfia di dolore lancinante. Ma avevo fatto centro e la troiaccia gridò insieme a me. Non mollai la presa e le mie unghie si conficcarono facilmente nel suo bel viso truccato. Il dolore al petto non fu nulla in confronto al piacere di vederle le guance rigate di sangue e gli occhi sbarrati dal terrore. Lui fu rapidissimo a dividerci, spingendomi sul letto brutalmente e offrendo un fazzoletto alla sua protetta. Sghignazzai istericamente sapendo bene che avrei pagato caro il mio gesto, ma troppo soddisfatta del volto sconvolto di lei per pentirmene.
“Bastardi figli di puttana!”, sibilai.
Ma allora la ragazza gettò a terra il fazzoletto e rabbiosa si scaraventò su di me.
“Ti farò a pezzi, ti farò implorare pietà in ginocchio”, urlò lei afferrando la catena legata all’anello e strattonandola sadicamente. Gridai, convinta che mi avrebbe strappato il capezzolo, quando la vidi sobbalzare e rabbrividire, sotto lo schiocco secco di una frustata.
“Che diavolo vuoi fare?!”, urlò lei voltandosi come una vipera.
Ma lui fece nuovamente vibrare quella specie di “gatto a nove code” sul suo fondoschiena e le intimò il silenzio con una sola occhiata.
“Me la pagherai!”, urlò lei, ma di nuovo una sferzata la colpì riducendole l’elegante vestitino in brandelli.
Sentii un liquido colarmi tra le cosce quasi fossi venuta e mi resi conto che la scena mi aveva fatto sciogliere in un lago di calda broda. Ero più bagnata che mai, più eccitata che dopo due ore di un saldo cazzo nella fica. Ma non ci pensai neppure per un istante a dar da vedere il mio stato d’animo. Conoscevo fin troppo bene quella Sua luce negli occhi e sapevo che non c’era da aspettarsi niente di tranquillizzante. Le si avvicinò, la prese per la nuca e le spinse la bocca contro il mio capezzolo inanellato.
“E ora lecca!”, ordinò.
Lei scosse rabbiosamente la testa e allora lui le strappò completamente l’abito e questa volta la frustata la colpì proprio tra le cosce, sulla parte più tenera e delicata. Ramona scoppiò a piangere come una ragazzina terrorizzata e poi docilmente allungò la lingua sul mio capezzolo. La mosse piano, lentamente, diligentemente.
Le sue lacrime colarono sul mio petto, roventi come acciaio fuso, facendomi fremere di voglia e solleticando il mio orgoglio. Ma non osai fare il minimo gesto, o mostrarmi soddisfatta della sua punizione. Lui ci sorvegliava a distanza. Semplicemente non mi mossi e lasciai che il mio capezzolo si indurisse e che Ramona me lo succhiasse. Sospirai, divaricando le cosce tra cui mi pareva di avere un fuoco, e poi voltai il capo verso di Lui. Era in piedi accanto al letto, con la frusta abbandonata lungo il fianco e gli occhi socchiusi, sornioni, come quelli di un gatto, attento ad ogni nostra smorfia.
Non dissi nulla ma sospirai e fui certa che lui leggesse bene il mio stato d’animo. Sapeva bene cosa stavo provando, cosa mi divampava dentro. Sapeva che non avrei mai fatto un solo gesto di vittoria o di soddisfazione ma che comprendevo bene il suo desiderio di vedermi godere. Faceva tutto parte di un disegno complesso e confuso, un disegno che potevamo leggerci negli occhi a tratti, che lui aveva collocato subito, sin dall’inizio, nella nostra storia.
Avevo gli occhi lucidi e il respiro affrettato. La voglia di lui mi scoppiava dentro ma non mi ritenevo autorizzata a sfiorarlo come avrei desiderato solo per il fatto che non aveva permesso a Ramona di farmi male. Guardai i miei polsi liberi e allora mi venne quasi istintivo un gesto che credevo non avrei più compiuto senza esserne obbligata. Alzai le braccia sopra la testa. Afferrai con entrambe le mani la sbarra del letto. E tornai a guardarlo. Non avevo bisogno di essere incatenata per scegliere di fare solo ciò che lui desiderava.
Lo capì. Mi si avvicinò, si slacciò i pantaloni e mi ficcò il cazzo in gola.
Tutto, fino a impedirmi di respirare. Sapeva che avrei potuto morderlo per liberarmene o meglio, avrei potuto allungare una mano per scansarlo. Ma non feci nulla di tutto ciò. Strinsi convulsamente la sbarra del letto e nonostante realmente stentassi ormai a respirare, non mi opposi al suo gesto. Avrebbe anche potuto soffocarmi, uccidermi, ma ugualmente non lo avrei allontanato. Non avevo bisogno di essere incatenata per fare solo il suo volere, per appartenergli. Quell’invisibile catena che mi legava a lui era molto più resistente e… pericolosa.
Chiusi gli occhi quando cominciò a girarmi la testa e allora lui mi prese per i capelli e con un gesto violento mi strappò dalle sue labbra. Lo guardai rantolando. Aveva gli occhi lucidi, il volto teso, confuso. Respirava affannosamente e il cazzo era rosso come stesse per sborrare da un momento all’altro. Aprì la bocca per parlare (forse mi immaginai di leggere un “ti amo” sulle sue labbra..) ma non disse nulla e per un attimo mi parve egli stesso incredulo e sconvolto dal potere che aveva su di me!

FINE
 
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16 replies since 26/12/2012, 15:14   6219 views
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